giovedì 6 marzo 2008

Un'unica idea

Fiumi di feci liquefatte scorrono in quel deserto, dove un fottuto vergine canta canzoni d’amore, aspettando il giorno che verrà, udendo l’incessante defluire dell’energia vitale, un fastidioso ronzio che annebbia il suono della voce, il pianto del cuore per la propria infame condizione di vecchio vergine e cardiopatico buffone. Il grigiore del vello cela la sua pelle ormai dura come il cuoio, scura come il cielo di una notte senza luna né stelle. I suoi occhi vagano alla ricerca di un sorriso, speranzosi, vivi, affamati del succo di donna che mai gli fu concesso di assaporare. La mente occlusa dal desiderio gli impedisce la ragione, lo scorrere di quei lucidi pensieri che permettono ad un uomo di vivere tranquillo, felice di sé ed innamorato della propria essenza. Il vecchio balordo ha sete, è stufo di rinfrescare l’ugola in quei fiumi lerci e maleodoranti; il vecchio cialtrone è stanco, sente il peso dell’età e sa di non avere più tempo. Tra non molto qualcosa in lui morirà, ne è certo, una malattia lo ammazzerà come un cane bastardo. Un’unica e vigorosa idea pervade quel corpo che sarebbe felice di potersi lasciar andare, di affogare in un sonno dolce ed eterno. Un’unica e vitale idea gli inculca la forza necessaria per sopravvivere e lo fa lottare, contro il triste Mietitore in uno scontro impetuoso ed aberrante. La Morte gli amputa un braccio, il destro, di netto, con una crudeltà degna solo del figlio del demonio. Ma la sinistra può bastare a smaltire lo sperma, ad impedire l’esplosione dei testicoli già gonfi e doloranti. Non è ancora detta, il vecchio storpio può ancora farcela. Non è detta, porca puttana, non è ancora detta. L’idea di una passera lo aiuta a non morire, a resistere a quella condizione apprezzata falsamente da preti e suore, vescovi e santi. Non può morire, non ora almeno, non vergine, per Dio. Un sussulto, un bruciore intenso, una smorfia lacerante, un grido di dolore e rabbia. La ferita è subito infetta, puzza, inizia a marcirgli l’anima, a indebolirlo nella mente e nel fisico. Il corpo del vecchio ora è una miccia, e la cancrena scandisce il tempo, ricorda chi è il vincitore della battaglia. Ma la verginità può essere ancora sconfitta, meglio fuggire da quel luogo, meglio correre, veloce, sempre più veloce. Non resta molto tempo. Uno scatto improvviso ed un cuore malato che batte forte, irregolare, e rende il respiro affannoso e la corsa difficile. Egli inciampa e cade, producendo un tonfo sordo, con i ciottoli taglienti che sfregiano la carne e si insinuano nelle ferite sanguinolente. La fine è vicina, il Mietitore non si è arreso, è testardo, troppo crudele, troppo implacabile e potente. Ora è lì, di fronte a lui, impugnante quella maledetta e temuta falce. Un sibilo assordante, degli schizzi di plasma, ed un piede che rotola e si allontana. Un nuovo bruciore, un’altra smorfia seguita dal grido rabbioso provocato dal dolore. Delle lacrime gli irradiano il volto, donandogli splendore, quella lucentezza tipica di un Dio ventenne e inarrestabile. Qualcosa in lui è cambiato, il pianto sembra avergli donato nuova forza, ha reso il suo sguardo risoluto, deciso all’azione. Il vecchio corpo ora si erge orgoglioso sul piede rimastogli, i muscoli tesi, il dolore svanito, solo tanto odio e quell’unica idea che aleggia e brilla arricchendolo di potere e vigore. Il fottuto vergine è finalmente pronto a fottere, chiunque, senza pietà, senza alcun’esitazione o ripensamento. E la Morte lo sa, riesce a percepire la metamorfosi, la trasformazione della preda in predatore. Ha paura, è terrorizzata, è conscia che ora non potrà fallire, che per la prima volta nella sua esistenza dovrà combattere utilizzando tutte le energie per difendere se stessa ed il proprio onore. Attimi di silenzio precedono la battaglia, entrambi decisi, entrambi risoluti, entrambi pronti a tutto. All’improvviso un frastuono, l’infrangersi della lama assassina sulla dura roccia, un balzo rapido, quasi felino, un violento colpo, ed il rumore d’ossa che si frantumano e vanno in mille pezzi. Il vecchio ha vinto. E’ riuscito a piegare il nemico, a diventare finalmente un temibile predatore. Ora si piega sullo sconfitto, feroce, sicuro, sguainando il membro, giocandoci, pregustando il fatidico momento sentito come prossimo ed inesorabile. Il Mietitore tenta un’ultima resistenza, ma ormai è tutto inutile, meglio stringere i denti, cercare di non pensare. Un sedere ossuto ed una penetrazione, lunga, profonda, e dolore, vergogna, odio, rabbia, rassegnazione. La Morte ha perso, un vecchio l’ha sconfitta e fottuta, gli ha riso in faccia e poi l’ha ringraziata.
Il vecchio non più vergine e cardiopatico buffone ora è soddisfatto. In qualche modo ha raggiunto l’obiettivo. Può andarsene, non ha più paura. La fine non lo spaventa. E’ indifferente al disciogliersi del potere, all’affievolirsi di quell’aura che sino a qualche attimo prima lo irradiava di energia e vita. Sa d’essere pronto, capisce che la cancrena da dentro lo sta divorando e che ha raggiunto gli organi interni. Sta morendo, ma non gli importa, e sorride. Un rigagnolo di sangue gli fuoriesce dalla bocca, luminoso, quasi quanto le lacrime di prima. Fa alcuni passi e cade. Prova a rialzarsi, ma non ci riesce. Non ci riuscirà mai, lo sa, e decide di lasciar accasciare quel suo anziano corpo ormai quasi privo di vita e speranze. Ma un’ombra improvvisa lo ricopre, inquietante, minacciosa, ed un sibilo infuocato fende l’aria e gli sventra l’addome, lasciandolo ansimante, a terra, con le budella molli che gli fuoriescono penzolanti dalla carne. Il triste Mietitore è tornato, con un’unica e spietata idea che gli pervade il cranio e guida il sadismo efferato delle sue azioni: vendetta. Il volto del vecchio appare deformato, da un ghigno di terrore, dalla consapevolezza delle atrocità che lo attendono, dal fetore delle interiora che inquinano l’aria, dal sapore del sangue che ha in bocca e che sa solo di tragedia. Il pene gli viene affettato, lentamente, con calma, tra urla strazianti, lacrime disperate e budella frullate, sparpagliate alla rinfusa in quel sacchetto di carne che è diventato. Occhi strappati, orecchie mozzate, dita solitarie che rimpiangono un padrone. E sangue, tanto sangue. E tanta adrenalina, e tanto stupido ed insopportabile dolore. La Morte pare sorridere, sa di aver fatto un buon lavoro, di aver quasi finito. Si siede in disparte e porta con se un braccio del vecchio, e lo sgranocchia, mentre si gode la scena. Decine di avvoltoi che si avventano sulla carcassa per contendersi un boccone, per sfamarsi, per bloccare il gorgoglio perenne dei loro stomaci sempre vuoti. Un’unica idea, la fame, li porta a fare ciò. Nessun desiderio particolare, alcuna sete di vendetta, solo tanta ed insaziabile fame. Ed alla fine il vecchio si è spento. E’ il due novembre, un giovedì. Sono le sette, in un deserto, ed attorno a lui non c’è nessuno, non una donna, non una femmina che gli stia accanto, che lo compianga, che lo stringa a sé cospargendolo del proprio amore. Solo animali, bestie, affamate della sua carne, della sua anima, della sua sofferenza, e del suo appagamento per l’essere finalmente diventato un uomo. FINE.

P....ino

Un tempo, nell’epoca in cui il genere umano raggiunse il suo massimo splendore, nacque un uomo di nome Piero. Piero era alto poco più di un metro e non era affatto bello. Il suo viso piuttosto schiacciato ed il corpo ricoperto da una soffice peluria lo facevano infatti assomigliare di più ad un tenero e dolce primate che ad altro. Inoltre, il suo apparato riproduttivo non s’era del tutto sviluppato, ed egli si ritrovò a trent’anni con un’inutile pisellino di un bambino di sei. Ed egli era triste e piangeva quando le donne di cui era innamorato lo abbandonavano per la sua incapacità nel farle venire, e gli amici lo compiangevano con sguardi tristi e malinconici mentre i nemici lo denigravano con sorrisi maliziosi e con squallide battutine. Così egli divenne la barzelletta vivente del paese, l’uomo che portava il buon umore agli abitanti del piccolo comune di Birdland. E Piero, che nonostante il suo aspetto un po’ animalesco aveva un animo gentile e delicato, iniziò a frequentare i bar più squallidi con la speranza che la bibita potesse alleviare quel dolore che sembrava demolirgli la psiche per farlo cadere in un annichilimento senza uguali. Il vino divenne il suo nuovo amico e la birra l’amante che non lo avrebbe mai tradito e deriso. Era triste e divertente vedere questa specie di scimmiotto che girava per le vie del borgo sempre pù sbronzo ogni giorno che passava. E le storie sul suo conto aumentavano finché egli non divenne una vera e propria leggenda. Alcuni dicevano ch’egli, dopo non essere riuscito a dormire per mesi a causa di un piccolo pisello che gli era finito sotto il materasso, tentò il suicidio scaraventandosi a testa contro il muro di una casa e aprendosi la cocuzza come un melone. Altri, invece, giuravano di averlo visto accoppiarsi con successo con un criceto, con questo che non pareva neppure accorgersi del fatto. Altri ancora affermavano di averlo visto, in una notte di luna piena, trasformarsi in un piccolo e simpatico pene che si muoveva saltando da un testicolo all’altro. Queste e tante altre erano le voci che giravano per Birdland e i paesi vicini, e che non facevano altro che contribuire sempre più alla demolizione di quel che rimaneva dell’autostima del povero Piero. Così egli, nel tentativo di risollevare il suo morale ormai a terra, decise di andarsene da quel luogo a lui tanto ostile e di trasferirsi nei boschi oltre le montagne Shorts. Lì, infatti, avrebbe potuto trascorrere una vita tranquilla, abbandonandosi ad un vero e proprio eremitaggio immerso nella natura più incontaminata e favorevole. Ben presto divenne un esperto nell’arte della sopravvivenza: imparò a procacciarsi il cibo e a masturbarsi strusciandosi su dei rami di pino, divenne abile nell’arrampicarsi sugli alberi e a masturbarsi strusciandosi su dei rami di pino, si fece maestro nel riconoscere la frutta più matura e nel masturbarsi strusciandosi su dei rami di pino. Insomma, si stava pian piano trasformando in uno di quei primati a cui tanto assomigliava, e finalmente sembrava aver raggiunto una vita senza problemi fatta eccezione per qualche ago di sempreverde che di tanto in tanto gli si conficcava come una trave nel suo quasi microscopico membro.
Ma nonostante le giornate proseguissero spensierate, la scimmia Piero non era del tutto felice. Gli mancava il fatto di non potersi bere un goccetto scambiando quattro chiacchiere con qualcuno. Era triste poiché, con tutto il rispetto per i rami di pino, non v’era una donna che riscaldasse con il suo dolce corpo il freddo giaciglio che s’era costruito. Così, avvolto da una strana nostalgia, ritornò per un paio di giorni a Birdland decidendo di alloggiare nel motel più malfamato del quartiere dei bordelli, il PussyBus. Questo era un luogo quasi mistico, in cui il sesso a pagamento era aperto a tutti e dove si poteva veder appagata qualsiasi fantasia e perversione. Puttane, transessuali e froci di qualsiasi razza e colore giravano seminudi vendendo il proprio corpo per pochi spicci. Ma come se ciò non bastasse, v’era pure la possibilità d’andare con cani, gatti, pecore e cavalli, oppure di farsi cacare e pisciare in faccia da qualche apposita donnetta. Quando Piero vi arrivò rimase allibito nel veder tanta lussuria tutta in un colpo e, arrapato come mai in vita sua, abbordò la prima femmina che passava e se la portò in una delle numerosissime LoveRoom. Era così eccitato che per poco non si sborrò nei pantaloni ancor prima di iniziare, e quando si tolse le mutande, preso dalla foga del momento, si lasciò sfuggire di non aver mai visto il suo pisello così grosso e lungo. La tipa, da vera professionista, resistette dal ridere e iniziò a ravanargli l’attrezzo con una maestria tale da farlo ansimare come un cane in calore. Ma ad un certo punto Piero scoprì quello che nessun uomo vorrebbe mai scoprire in certi momenti: la tipa non era proprio una tipa. Cioè, sembrava una tipa poiché aveva le tette e il culo di una tipa, ma aveva anche un enorme e gigantesco cazzone che gli spuntava da lì dove non doveva esserci. Piero non fece in tempo a fermare quell’essere che venne e subito dopo sboccò. Non riusciva a credere di essersi fatto fare una sega da un uomo con un membro che era almeno cinque volte più grosso e robusto del suo. Non riusciva e non voleva crederci d’essere stato così stupido e distratto da non accorgersi prima che quella che gli stava di fronte non era una donna ma un uomo molto più virile e maschio di lui. E per la prima volta in vita sua vide come doveva essere fatta una vera verga e si rese veramente conto dell’inutilità del suo piccolissimo pisello. Così Piero, invaso dal terrore e da un opprimente senso di inferiorità, fuggì dal PussyBus per tornare nuovamente nei boschi dai quali era venuto. E lì vi rimase per anni, sino a quando, il 17 giugno di non ricordo quale anno, non fu catturato da un gruppo di bracconieri finlandesi per essere poi rivenduto ad uno zoo d’oltralpe. In questo carcere per animali, che a tutti potrebbe sembrare un luogo crudele ed incivile, Piero raggiunse l’apice della sua esistenza, potendo finalmente mangiare, bere e scopare con quelle maledette e rumorose scimmie a cui tanto assomigliava.

Il vento parla parole

Il vento parla
suggerisce parole
d’amore,
risposte da dare.

Il vento ci sussurra
l’anima piange
e ascolta il messaggio
e medita…

Un cuore sobbalza,
niente più lacrime,
un ultimo sospiro
e nulla più..

solo parole nel vento.


Il vento soffiava forte, e raggelava il petto e l’urina che m’usciva dal pene rattrappito per via del freddo. Era inverno ormai, una notte gelida in cui la sbornia faticava ad abbandonarmi. Ero stato fortunato. Quella sera avevo speso un capitale, in giro per bar, ma ero riuscito in un qualche modo ad anestetizzare il cervello ed a rinfrancar lo spirito. Stavo bene. Erano le due del mattino e mi ero ritrovato a mingere dietro ad un bidone dell’immondizia in pieno centro. Stavo bene. Le auto passavano, con i loro fari accecanti. Mi pareva di poter scorgere i sorrisi beffardi degli automobilisti, ero certo di poter udire i loro pensieri.

“Povero ubriacone, povero callone, povero disgraziato, povero imbecille, povero povero,…ma vai a pisciare a casa tua. “Il vento soffiava forte e faceva freddo, tanto freddo. Ieri sera ho visto un ubriacone che girava per la città pisciando in giro, un po’ dove gli capitava. Sono certo che ora sia morto. Faceva freddo, troppo freddo”. Ecco cosa racconterò domani alla gente.”

Smisi di pisciare ed entrai in un altro bar. Sta città è piena di luride bettolacce, pensai, mi piace. L’aria soffocava i polmoni e richiamava alla bocca il pranzo che avevo ingurgitato il giorno prima: puzza di escrementi di gatto mescolati al fetore di tabacco, e di vino ingerito ed espulso dal culo. Il locale era cupo, con luci soffuse, inghiottito dal fumo, e musiche psicadeliche che accarezzavano i presenti. M’appoggiai al bancone ed ordinai da bere.

“Un altro pezzente, ecco un altro fallito venuto ad inquinare. Ma questa feccia non poteva restarsene a casa. Tutti qui devono capitare. Le ammazzerei tutte, queste schifose merde. ...(?!)”

Mi guardai attorno. Il posto era colmo di gente bizzarra. Puttane sghignazzanti e di colore, vecchi urinati, ragazzetti farciti di liquori, ed eroinomani che parevano più morti che vivi. La musica s’era fatta più ritmata. Bella musica, sì, proprio della bella musica. Finalmente l’oste mi portò la mia maledetta birra. La sorseggiai e m’accorsi ch’era allungata con dell’acqua. Non mi piaceva quel figlio di una cagna, mi fissava, mi guardava con troppo disprezzo. E per giunta m’aveva rifilato quello schifo sgasato privo di gusto e di malto. Cercai di fregarmene, ma una fievole bestemmia uscì dalla mia bocca.

“Povero diavolo, così giovane e già ridotto ad un cadavere. Un ubriacone solitario, un uomo della notte che s’aggira per i bar in cerca di chissà cosa. Barcolla ma non cade, il ventre gli è gonfio, sembra sporco, ma forse è solo una mia impressione. I denti giallastri, la barba sfatta e gli occhi semi aperti. Deve essere proprio sbronzo. Povero diavolo, così giovane, ed uno straccio per pulire il vomito farebbe più bella figura ad incrociarlo per strada. Ma non è malaccio, forse gli manca una femmina che lo faccia rigar dritto. Sì, non è malaccio.”

Tracannai quella fucked beer e chiamai qualcosa di più forte. Questa volta il maiale fu più veloce, e mi servì del rum in un bicchiere bello capiente. Buttai giù pure quello, in un paio di sorsi, e mi riappoggiai al bancone, un po’ per non cadere ed un po’ per tentare di darmi un tono.

“Si, non è malaccio..”

Intanto una femmina mi si era avvicinata. Era laida, vecchia, roba da capelli bianchi, dentiera e ragnatele nella passera. Iniziò a parlarmi, si vedeva ch’era sbronza, e subito mi convinsi che il fetore del suo alito si sarebbe potuto sentire anche in un cesso pieno di merda e con lo sciacquone fuori uso. Il pensiero di quella donna nuda mi rabbrividiva il buco del culo e afflosciava lo scroto. Era uno schifo, un mostro che pareva uscito da un qualche film dell’orrore o simili. Insomma, quella troia bastarda s’era messa in testa di farsi fottere, quella sera, e pareva di aver scelto proprio il sottoscritto. Minchia, stavo affogando nel letame e non sapevo come uscirne senza inciampare in una delle solite figuracce. Le avrei spaccato il muso a pugni e sfondato il culo a calci, ma il buon senso mi suggerì di lasciar perdere. Non volevo dare al maledetto barista un’occasione per cacciarmi dal locale e per non farmi mai più rientrare. Mi piaceva l’ambiente, e mi ci trovavo bene. Decisi allora di lasciarla parlare e di ordinare dell’altro rum. Il maledetto se la rideva mentre mi sbatteva sotto agli occhi quella bottiglia d’alcol scadente, pareva d’aver trovato nella vecchia un modo di vendicarsi di non so che cosa. Ma lasciamo stare. Mi colmai il bicchiere e passai il resto al mostro che fece altrettanto. Ci scolammo la bozza, con questa che parlava ed io che in principio cercavo di contare le rughe del suo volto. Poi ero troppo ubriaco, ne vedevo due, di volti, e pregavo perché sparissero entrambi. Ma niente, quelle due facce ghignanti ed arrapate stavano sempre lì, cercando di infilarmi in bocca delle lingue sudice e disgustose. Ero nauseato, mi venne da sboccare, e sboccai. Non stavo bene, troppo alcol, niente farmaci da giorni, ormai. Corsi fuori dal locale dicendo alla troia bastarda di non seguirmi. Non mi diede ascolto. Il vento soffiava forte e faceva freddo, tanto freddo. Il vento mi parlava, una voce diabolica s’impossessò dell’aria che mi circondava e gridava. Il vento gridava. Parole d’amore, urla di morti, strilli di bambini violentati, mutilati e poi uccisi. Non stavo bene, pensavo troppo velocemente, non riuscivo a ragionare. Le strilla continuavano. Urlai anch’io. La troia bastarda si spaventò, e con un modo di fare quasi materno mi strinse la testa tra le sue enormi e flaccide tette. Mi sentivo meglio, il battito del cuore mi calmava, e rendeva mansueto ed eccitato allo stesso tempo. Iniziai a spogliarla. Le sbottonai lentamente la giacca, mi liberai in qualche modo del maglione e le tirai fuori un seno. Le succhiai il capezzolo, all’inizio con una dolcezza che pareva eccitarla, farla ansimare, poi con foga, con una passione tale da sfociare in un morso violento e dilaniante. Un urlo di dolore accompagnò tutto quel sangue e il sapore della cruda carne che stringevo tra le fauci. La pace era finita, il vento aveva riiniziato a soffiare ed a gridare. Ordinava di uccidere, di colpire furiosamente, di fottere incessantemente quella vecchia e fragile carcassa. Sembrava impazzito, il vento, faceva paura. Le sue raggelanti risa, l’ossessione per il sangue, le strazianti urla che inneggiavano alla morte, ed il potere che esse esercitavano sulla mia debole e fragile anima. Il vento mi rapì ed io non opposi resistenza, in fondo vedevo nella paura l’unico mezzo per raggiungere il completo appagamento. Ad un tratto i bambini smisero di strillare ed il cuore rallentò il suo tachicardico battere. Il respiro si fece meno affannoso, ed i pensieri sempre sfuggenti si preparavano ad un inevitabile ma necessario compromesso con la realtà. Ero tornato in me. Stavo lì, in piedi, di fronte a quel cadavere che giaceva disteso in una pozza di sangue puzzolente, con il pene in erezione e un irresistibile desiderio di masturbarmi. Mi sparai una sega, venendo su ciò che rimaneva del mostro, ed andai a dormire.

Il vento parla
suggerisce parole
d’amore,
risposte da dare

Il vento ci sussurra,
un’anima piange
e ascolta il messaggio
e poi nulla più..

solo parole nel vento

Mi risvegliai nel mio letto. Era tardi, cazzo, ma forse ero ancora in tempo per la terapia del mattino. Mi vestii alla buona e uscii da casa. Il vento soffiava forte e faceva freddo, tanto freddo. Ma il centro era vicino e l’alcol smaltito. Non avrei dovuto avere grossi problemi, pensai, mentre mi avviavo per la strada avvolto dall’arsura, e desideroso di una donna, che mi facesse rigar dritto.

JACK-Lettere di un barbone

1. Ci sono degli attimi in cui credo che il mondo non giri per il verso giusto. Ciò mi accade quando avverto che Morfeo sta per afferrarmi, quando sto nel mio letto e ripenso alla giornata appena trascorsa. E’ in questi momenti che mi rendo conto della monotonia della vita, della futilità dell’esistere, e che mi chiedo cosa sia che mi faccia tirare avanti. Ormai sono dei mesi che non vedo una passera e penso che ormai, visto come sono ridotto, non vi sia neppure una femmina che desideri trascorrere una nottata in mia compagnia. Io sono Jack e la gente mi chiama barbone. Io sono Jack e sono un senzatetto. Ho cinquantatre anni suonati ed il mio letto è uno scatolone, la mia casa è la strada, la mia vita è il bere. Le grigie giornate trascorrono lente per la gente come me, costrette a contare sulla pietà dei passanti per accattare qualche moneta con la quale potersi sbronzare in una delle tante rivendite di liquori. E’ una vita di merda, fidatevi. La gente è molto più bastarda di quanto si possa pensare. Non sono state poche le volte in cui ho ricevuto insulti, imprecazioni e bastonate solo per aver cercato di elemosinare qualche spiccio. Ma anche se non sono un frocetto dall’alito profumato e in abiti firmati, io mi ritengo un signore, uno che dalla vita è riuscito a ricavare qualcosa di più di qualche futile pecunia e di qualche scopatina con donnette dalla fica curata. Io non mi lavo ma profumo ugualmente. Posso puzzare di sudore, di strada o di birra, ma io sento solo il profumo di un uomo che ha saputo riconoscere la gioia nelle sofferenze. Ed io apprezzo il mio candido fetore poiché è l’odore di chi sa di non sapere, l’odore del saggio che finalmente ha compreso l’importanza della semplicità. Sorrido quando passeggio nel parco mentre il sole mi accarezza e riscalda. Sorrido quando nel bar un cuore generoso mi offre un calice di rosso e quattro parole. Ma piango quando non avverto amore nell’aria, quando la solitudine mi attanaglia e quando la fame e la sete mi logorano le viscere. La gente non sa e non mi conosce. La gente non può immaginare quanto sia grande la mia sete di vino, e non può conoscere il dolore che lacera il mio spirito quando rimango a secco, quando rimango appoggiato al bancone con davanti agli occhi solo un bicchiere vuoto. C’è chi mi deride ma io non mi piego, e rispondo alle risa con insulti che alcun uomo sano di mente sarebbe in grado di pronunciare. C’è chi mi compiange ma io non mi rattristo, e dono loro un malinconico e sincero sorriso.
Io sono Jack, il re della città. Io sono Jack, il dio del vino. Io sono Jack, l’uomo sofferente. Solo da ebbro cammino felice tra le vie del mio lercio regno fatto di mura, marciapiedi e bettole. Solo se sono ubriaco apprezzo i miei sporchi e lunghi capelli biondi e la barba brizzolata. Solo se sono sbronzo adoro la mia pancia dolorante e gonfia per via dei liquori ingeriti. Solo se sono strafatto amo me stesso e ricevo del calore. Quando sono fortunato fumo del crack e sono felice. Quando sono sfortunato il piacere passa, sogno un’altra fumata, e non desidero altro che morire.
Ma non sono così da sempre. Un tempo ero un padre di famiglia, e amavo i miei cari figlioli più di qualsiasi altra cosa al mondo. Avevo un lavoro che non mi dispiaceva ed una moglie che con la sua bellezza ed i suoi modi gentili pareva emanare una luce quasi celestiale. L’amavo, porca troia se l’amavo. Era il mio cuore, la mia stella, il mio sole e la mia luna. Non ci sono parole per descrivere l’amore che provavo, ma tante sono quelle che potrei usare per descrivere l’odio che provai quando se ne andò lasciandomi solo come un cane. Non sono ancora riuscito a capire perché se ne andò, ma quel suo gesto lasciò in me una ferita che neppure il tempo poté rimarginare. Abbandonai tutto e decisi di dedicarmi al vagabondaggio, di girare per il paese senza una meta e ripromettendomi che non ci sarebbe stata più alcuna donna alla quale avrei donato il mio amore. Così ora mi ritrovo ad essere un tossico in cerca di pace ed incapace a provare amore e sentimenti per le persone. Sono un asociale e non desidero altro che essere lasciato tranquillo e libero di potermi sbronzare ogniqualvolta ne abbia voglia. Io sono Jack, il principe dei barfly. Io sono Jack, il migliore tra i vagabondi. Io sono. C’è chi ritiene che io sia un pazzo e chi pensa che la gente come me neppure esista. Ma io ci sono. Esisto come esistono le leggende, vivo come vivono i miti, e mangio e caco come fanno gli uomini. Penso solo ai fatti miei e sono felice. Non si hanno inutili preoccupazioni vivendo per la strada. La mensa mi offre un pasto caldo e sono felice. Una vecchina mi dona qualche dollaro e mi ubriaco, e sono felice. Evito l’amore perché odio il dolore e fumo il crack perché amo il piacere. Non invidio nessuno e non desidero alcuna ricchezza poiché non mi serve. Odio le comodità e la gente che da essa dipende. Odio quei frocetti blasfemi e schiavi del dio denaro, quei maledetti consumatori di coca-cola e ingeritori di prodotti biologici. Io amo la strada e chi ci vive e lavora. Amo l’amicizia dei miei compari e la simpatia delle prostitute che di notte invadono il mio marciapiede donandomi di tanto in tanto un po’ del loro amore. Io amo il vino, il rum, il whisky, il gin e le scopate facili. Desidero trascorrere quel che mi rimane da vivere in pieno, non voglio rimpianti e non ne avrò. Vivrò sempre come mi pare e piace, me ne fregherò dei giudizi dei passanti e berrò fino alla nausea ogni volta che mi andrà di farlo. Solo la morte potrà cambiare questo mio modo d’essere, solo l’inferno, con le sue fiamme perenni, piegherà il mio orgoglio. E intanto rimango ad aspettare, ad attendere il giorno in cui diventerò cibo per i vermi. Mi chiedo solo in che modo me ne andrò, anche se non so se mi piacerebbe sapere cosa sarà a provocare il mio trapasso. Forse la lama di un pappone, qualche bastonata di troppo, il freddo gelido o una fumata sottovalutata. Non so e più di tanto non mi interessa. Ed intanto rimango a bere e a sbronzarmi, a ridere e a piangere, aspettando il fatidico giorno in cui quei maledetti vermi verranno per divorarmi.

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2. Ho bisogno di dormire ,cazzo. Questa stanza puzza, impregnata com’è del fetore di piscio e di vomito. E quel maledetto suono proveniente dai macchinari che mi hanno attaccato addosso mi fa passare il sonno e mi riempie il cuore d’ira. Le infermiere passano sbraitando e non sembrano più di tanto preoccupate della salute mia e dei miei vicini di branda. Vorrei ammazzarle tutte, ma sto male ed è già tanto se riesco ad alzarmi per andare al cesso. Un dolore pulsante all’altezza del fegato mi lacera dentro e mi vorrebbe far urlare. Vorrei un goccetto che placasse questo maledetto dolore, ed un fucile che mi permettesse di zittire quelle maledette galline in camice verde. Ma niente, devo sopportare entrambi. Ho già chiesto al dottore dell’altra morfina ma quello non ne vuole sapere di una seconda endovena. Fermo allora una di quelle oche starnazzanti e le chiedo di procurarmi del crack. La troia non mi risponde nemmeno e se ne va guardandomi con disprezzo. Nessuno mi caca in questo posto di merda, nessuno sembra preoccuparsi di me, di Jack, il dio del vino, il principe dei vagabondi, il re della strada. La tristezza mi avvolge e la mia anima piange. Sono solo. Sono solo e vorrei dormire. Sono solo e vorrei morire. Ho un colore giallastro e le mie feci emanano una puzza nauseante, ho le bave alla bocca e non faccio altro che vomitare sangue. Sono già morto ma respiro ancora. Sono già morto ma Dio vuole farmi soffrire ancora. Ho quasi sessant’anni e mi ritrovo a piangere come un neonato in un letto d’ospedale, abbandonato dal mondo e dai parenti più cari. Non credevo che alla mia veneranda età avessi ancora lacrime da versare, ma forse niente in cui credevo era vero. Adesso odio tutto e tutti. Odio chi, quand’ero ancora un bimbo, mi diceva che la vita era una cosa meravigliosa, che un giorno sarei stato felice e che sarei diventato qualcuno. Che mi venga a vedere ora. Puzzo di cadavere ma sono vivo, intorno a me è pieno di gente ma sono sempre solo, ho voglia di scolarmi una birra ma la sete rimane. Cerco allora di consolarmi ripensando ai momenti felici della mia vita, a quando profumavo ancora di strada e di vino, a quando ero il numero uno nella via e fumavo il crack, a quando avevo imparato a vivere senza amare. Ma niente, delle altre lacrime, lacrime di nostalgia, sgorgano dai miei vecchi occhi malandati. Mi sto prendendo in giro. Mi sono preso in giro per anni. La verità è che rimpiango ancora mia moglie e i miei figli. La verità è che sono stato felice solo quando ho amato e sono stato amato. E’ da anni che non li vedo, anni che mi sembrano secoli, e mi chiedo se mai un giorno li rivedrò. Ci spero ancora ma mi sembra difficile. E’ inutile che mi illuda così. E’ inutile. Ma posso comunque ricordarli, utilizzarli come una specie di eroina in grado di alleviare il dolore che logora il mio ventre e la mia anima. Però ho sonno. Ho sonno e non riesco a dormire. Ho fame e non riesco a mangiare. Ho sete e non posso bere. Ho voglia d’essere amato, e non posso. No, non posso. Tristezza e frustrazione invadono il mio cranio e offuscano i miei pensieri. E’ strano. E’ strano che debba finire proprio così, ma forse è quel che mi merito. Forse è meglio che mi lasci andare, che posi la penna e mi lasci prendere da quegli angeli oscuri impugnanti forche roventi. Sì, è meglio così. E’ meglio che chiuda i miei occhi stanchi, con la consapevolezza che quando li riaprirò non sarò più qui con voi, ma in un inferno di fuoco e fiamme. Li vedo quegli angeli oscuri, li vedo e ho freddo, e sono stanco, stanco di vivere. Buonanotte. Addio.


Jack, l’uomo, il dio e lo spirito.

Odio

Ero stufo di rimanere in quel maledetto bosco pieno di ratti, insetti e di stupidi porci selvatici ricoperti di pelo. Ero stufo e stanco di restarmene lì, ad aspettare che piovesse per potermi dissetare e ad attendere che qualche animale mi cagasse accanto per potermi nutrire delle sue schifose feci. Per non parlare poi dell’ansia che mi saliva quando scoppiava un temporale, con tutte quelle saette che potevano colpirmi da un momento all’altro, e quella pioggia incessante che sembrava volermi far marcire come la carcassa morta di un ottuso coniglio caduto in una qualche trappola per topi. Ero stanco, ed ero ormai giunto ad odiare tutto ciò che mi circondava. Odiavo la stupidità delle bestie, la vanità dei fiori, l’inutilità dell’erba e le pisciate degli uomini. Non sopportavo l’operosità delle api e delle formiche, l’ozio delle cicale, l’aspetto dei vermi ed il canto degli uccelli che di essi si nutrono. Avrei ucciso tutti gli orsi che tanto mi spaventavano e tutti quei maledetti leprotti che non facevano altro che saltare e mangiar radici. Avrei sterminato cerbiatti e pulcini, distrutto il sole e spaccato il cielo e la terra. Mi sarei bruciato vivo pur di non udire più il fastidioso rumore di quel ruscello inquinato e puzzolente che scorreva a pochi metri da dove abitavo. Sì, avrei preferito morire di una morte orrenda piuttosto che dover restare ancora in quell’inferno che in molti difendono e chiamano natura. Ma che ne potevano sapere tutti quegli ambientalisti di quello che provavo? Non potevano farsi i fatti loro e lasciare che distruggessero il bosco quando della gente ci aveva provato? Che ne sapevano loro della noia che si provava? Che ne sapevano loro di cosa voleva dire essere costretto a non potersi muovere? Nessuno mi portava rispetto e nessuno si degnava di fermarsi per raccontarmi cosa accadeva al di là delle colline o per donarmi una carezza e un po’ di compagnia. Nessuno voleva bene ad un vecchio ormai rinsecchito e pieno di parassiti, al più longevo e saggio abitante del bosco. Ma ora, ora che sono morto, il mio spirito può muoversi liberamente ed i miei occhi possono finalmente scorgere quel che vi è oltre quei colli che prima mi parevano tanto lontani. Ora sono libero di passeggiare; posso saltare, giocare e correre dove più mi pare e piace. Insomma, solo dopo la morte ho potuto trovare la vita e la libertà che Dio non ha voluto concedermi quand’ero ancora una delle più alte sequoie del bosco. Solo dopo la morte ho potuto abbandonare l’odio e l’invidia che stavano ormai rubandomi il cuore per renderlo nero e scuro come la pece. Solo dopo la morte ho potuto raggiungere quella pace che in vita m’era mancata. E allora grazie. Grazie di cuore, fottuto boscaiolo, spero tanto che tu possa presto morire ammazzato per poterti godere tutta questa felicità. Grazie.