mercoledì 9 settembre 2020

Le cicale cantano giocose

Le cicale cantano giocose, spensierate, come se l’inverno non fosse prossimo e l’estate non stesse per finire. Una leggera brezza rinfresca l’aria, e smuove le foglie e i rami degli alberi, mentre il terriccio ancora umido e le abbondanti pozzanghere mi ricordano che ieri ha piovuto, e che forse oggi pioverà ancora. Ma la tempesta è passata, e una calda e fioca luce avvolge il giorno e la vita. Il cielo al momento è sgombro, e quel vecchio capanno degli attrezzi se ne sta lì, immobile, fisso in quel luogo senza un senso e senza tempo. Una vecchia signora mi spia da una finestra, e mi scruta fumare dell’erba, protetta da quei vetri spessi e da una tenda ingiallita dagli anni, mentre un trentenne pazzo e dall’animo poco scaltro, di tanto in tanto, se ne esce da uno squallido portone borbottando frasi prive di significato e che mi appaiono un poco inquietanti. “ Mi sono pulito bene il culo?”, chiede l’uomo urlando, “Venite a vedere la mia pala eolica che va a corrente!!”, dice. Oppure: “Attenti al fantasma dell’opera che vive ai bordi della via”, “L’universo rosso sta per collassare!!”, e “porco dio”, e porco quello e porco pure quell’altro. Io continuo a fumare, e le cicale a cantare, ma il cielo torna ad imbrunirsi, ed un tuono improvviso scuote l'aria, e la pioggia ricomincia a cadere, ad inzupparmi, come per gioco, ed il vento dell'est si mescola alla grandine ed inizia seriamente a farmi del male. Le strade si riempiono d'acqua, i tombini impazziscono, il folle si dilegua, e piccoli fiumi trasportano con sé ratti e cicale, e nessuno più canta e grida in questa notte segnata dal gelo. Allora abbandono i calzoncini corti, consapevole che l'estate sia finita e che l'autunno stia prendendo il sopravvento, e mi rifugio dove mi sento più sicuro, nel mio caldo, vecchio e sgualcito cappotto nero, ciò che ho di più caro e che porta con sé il profumo dell'infanzia, il sapore della famiglia. Qui mi crogiolo nei ricordi della spensieratezza, di quando ero un bimbo, di quando la gente non si ammalava e non moriva, di quando l'estate era eterna, e si giocava a pallone, e a scuola ci si divertiva. A quei tempi c'era sempre qualcuno che ti raccoglieva mentre cadevi, c'era sempre chi ti teneva per mano quando ti disperavi per un attimo di solitudine e ti pareva di morire, c'erano i tuoi genitori, i nonni e gli zii, tutti vivi, tutti salvi, tutti pronti a coccolarti in ogni istante, anche quando sbagliavi e non te ne accorgevi. In quegli anni tutto era perfetto, ed in questo cappotto il freddo non mi tocca, mi passa accanto come se non mi appartenesse, il vento mi sfiora senza scalfirmi, e, mentre lo indosso, riesco ancora a sentire in lontananza un flebile canto di cicale e di vita. E l'amore mi riscalda il cuore, l'amore di chi mi sta e di chi mi è stato accanto, l'affetto degli amici più cari, di quelli fraterni e di quelli no, di chi è cresciuto, di chi è rimasto scemo, di chi è partito per il lungo viaggio e di chi è ancora qui per regalarmi quattro carezze ed un bicchiere di vino. E quel bicchiere io lo tracanno come se non ci fosse un domani, come se fosse l'ultimo, poiché l'alcolismo mi calza a pennello e la vita mi sta stretta, perché adoro le carezze e solo con esse trovo quella pace che l'esistere non mi sa dare. E queste rughe sono profonde cicatrici che mi solcano il viso, esibisco con orgoglio il tempo trascorso e il logorio che ne comporta, e, mentre mi osservo allo specchio, vedo mio padre e mio nonno, e mi commuovo, e gli occhi mi si riempiono di lacrime e sangue perché sento che ormai tutto sta per finire. Dei fiocchi di neve iniziano cadere, e pian piano avvolgono questo corpo stanco che le gambe non riescono più a reggere, e la bufera mi travolge, gli occhi parlano solo del bianco e del nero, l'udito tradisce i suoni ed il pensiero cavalca mondi trascorsi che ormai non hanno senso ma che devono essere ricordati. Ed allora parlo della guerra e di come sono scappato, dei nazisti, dei ferrovieri, e della brava gente che mi ha protetto, e di come ce l'ho fatta a ritornare a casa. E c'è chi mi ascolta e chi no, c'è chi mi ama e chi vorrebbe uccidermi, e le mosche svolazzano felici su di un cavallo che non ha più forze e che ormai si lascia andare. Sento il freddo accogliermi, e non ha importanza, una squallida eredità lascerà unicamente discussioni ed amore. E dormirò sogni eterni, perché sono solo un cialtrone morente in un mondo di eroi, sono solo uno dei tanti, sono solo una flebile ma intensa luce che sta per spegnersi ed essere inghiottita dal nulla. Con un gemito di dolore finalmente abbandono la carne, saluto per sempre quel sacchetto di budella, sangue e muscoli che mi ha accompagnato per tanti anni, e mi fermo ad osservarlo, ad ammirare la neve ricoprirlo come a volerlo proteggere, rimango estasiato dalla natura che vi brulica attorno, e pian piano il gelo si scioglie, e scoppio in un pianto di gioia quando scopro che da lì, dove una volta c'era il mio cuore, ora si erge una candida e meravigliosa margherita. Ed un bambino le corre incontro, lo vedo sorridere mentre si china per raccoglierla, e sorrido con lui mentre si allontana, mentre lo vedo correre e sparire dietro a quel vecchio capanno che se ne sta lì, immobile, fisso in quel luogo senza un senso e senza tempo. “Mamma, mamma!! Che bello! Guarda, è tornata la primavera!!”.