domenica 11 gennaio 2009

Nel Campo dei Cipressi (dedicato all'anticlericalismo radicato in Tex..)

Un bambino passeggia perplesso, avvolto dal vento, la fronte corrugata e nella mente un dubbio atroce, una terribile sensazione che gli sta uccidendo la giovinezza, una perdita di fede e una morte che ha messo in discussione il suo credo, e quella fiducia incondizionata nell’esistenza del Dio creatore, amore e benevolenza.
Attorno, ragazzini bastardi e vecchi stolti vagano tra i corpi decomposti di poveri cristi crocifissi ai lati della strada, cercando spazio per la propria croce, proseguendo annusando ebbrezza tra i lamenti ed il fetore nauseante della putrefazione. Il bambino va avanti silenzioso, gli occhi fissi a terra, una preghiera ad ogni croce ed un singhiozzo disperato per ogni chiodo conficcato nella carne.
Le tenebre fanno propria la notte, le nubi si raddensano e la pioggia inizia a cadere mescolandosi al sangue, i lampi infrangono il cielo illuminando giocattoli abbandonati, antichi palloni e bambole di gente andata, ricordi perduti di peccatori blasfemi dagli animi corrotti, uomini rimasti tali poiché incapaci d’improvvisare filosofie gentili ed ammalianti. D’un tratto, una voce fioca ed improvvisa,
simile ad un respiro roco, chiama per nome il fanciullo che si volta sorpreso, impaurito, verso quell’alta croce che ospita il volto familiare di un uomo il cui aspetto sfigurato appare meno morto degli altri, uno spirito stanco aggrappato ad un corpo divorato dal dolore e dalle larve, una bocca insanguinata che ha ancora voglia di blaterare. Così l’uomo racconta al bambino la propria storia, la simpatia per la Chiesa, quell’odio immondo per i vizi e i desideri della carne, le infinite maledizioni rivolte a taverne e bordelli, scienza e tecnologie. Si sfoga, inveisce contro Dio, quel Cristo che lo ha abbandonato facendogli smarrire il cammino, indirizzandolo tra le braccia monche di preti e suore, figli di satana assassini d’ideali e progresso, spacciatori di candida gialla eroina che appanna la vista
svincolandoci dal peccato. Parla, parla e parla, l’uomo dice di cose sempre sapute, mai dette, una storia di morte e vita, la vicenda di un uomo fottuto che gli brucia il culo e fa male. Ma mentre parla i suoi occhi si fanno carichi di lacrime e tristezza, sono travolti da un pianto disperato per la disperazione di essere stato truffato ed ingannato da un dio che in realtà non è Dio, una religione
fasulla e satolla di promesse, fatte da nessun altro che da gente corrotta ed assetata di denaro, inconsapevole dell’amore e schiava dello spicciolo. Una bestemmia sincera gli si materializza in testa, prega il bambino affinché non faccia quella stessa orrenda fine, affinché possa finalmente assaporare la vita, libero da inutili moralità e stupide costrizioni.
Il bambino ha ascoltato e compreso, la commozione lo pervade intorpidendogli i pensieri e le emozioni, inzuppandogli le mani nell’Lsd e portandole alla bocca dell’uomo che gliele succhia sino a farle sanguinare. Poi divora il proprio sangue mescolato all’acido, si sbarazza del battesimo e alla fine si risveglia dal sogno che per tutta la sua breve vita l’ha incatenato in paradisi fittizi, fatti
d’angeli biondi e nuvole dorate. Ora è di nuovo pronto, ad assoggettare il mondo, la rabbia lo percuote, la via si riempie di puffi balordi ed immorali, esseri immondi armati di parole e mannaie, un esercito ribelle che sospinto dall’estasi abbatte le croci ed uccide i superstiti ovattandone la sofferenza.
La ribellione sopprime la repressione con aghi forati da spine di rosa e cose che non ricordo, l’eroina viene risucchiata dai corpi liberando così i pensieri da fiacchezza e rassegnazione, la follia s’impossessa degli animi claudicanti che ora alzano lo sguardo al cielo arricchendo la propria esperienza ed allontanandosi dal fetore e dal desiderio della morte. Le croci cadono una dopo l’altra, una melanconica e triste vittoria, un insensato senso di stordimento e perdizione che
sostituisce le certezze imposte con vaghe impressioni e percezioni ambivalenti di un mondo più magico e concreto.
Le tenebre si dissolvono e la fiaba sta per finire, una luce arde nella notte, conferendo allo sguardo del bambino consapevolezza, e una maturità che finalmente gli permette di riconoscere se stesso da adulto nel viso del crocifisso steso a terra di fronte a lui.
Alla fine si guarda morire nel campo dei cipressi, accompagna il proprio trapasso, il funerale, con un silenzioso lamento, ed assiste alla resurrezione di un uomo con una tenue soddisfazione per l’essere alla fine riuscito a salvarsi dalle lacrime e la disperazione. Un ultimo pianto gli sciupa il viso. E’ un pianto di gioia, il vagito dell’infante che per la prima volta incontra la vita, il grido liberatorio di uno spirito che rincorre la luce, una strana nostalgia, un uomo che ha abbandonato
tutto, antichi palloni e bambole, ricordi perduti in una nottata d’inverno, nel vecchio e freddo campo dei cipressi.


La casa dell'ometto verde

Erano passati ormai sei anni da quando mi trasferii in quel buco parcheggiato dietro al campo degli opossum. Ce n’erano a centinaia di quei pezzi di merda, maledetti criminali che nella vita non facevano altro che saccheggiare le case altrui e fumare skunk ed annusare colla. Faceva schifo a tutti, il mio vecchio monolocale, ed anch’io lo odiavo, ma era accogliente e lo avevo arredato come più mi garbava. Oltre al bagno, v’era un’unica stanza che fungeva da cucina, salotto e camera da letto. Era bellissima, con tutti quei poster osé appiccicati alle pareti e quella moquette zebrata che dava un tocco di omosessualità alla mia vita. Ma ciò di cui andavo veramente fiero era l’enorme divano ad L che occupava l’angolo sotto la finestra. La pelle nera, che ricopriva le soffici piume d’oca di cui era fatto, emanava un profumo inebriante, e la sua comodità era tale che mi era difficile alzarmi ogniqualvolta mi ci adagiavo per addormentarmi. Nell’angolo opposto, un piccolo angolo cottura era affiancato da un armadio a due ante sopra il quale si trovava la mia collezione di sveglie antiche, cinquanta orologi tutti funzionanti che ticchettavano in continuazione e suonavano ad ogni ora. Insomma, era un posto piccolo ma accogliente, il rifugio per me più adatto in cui potermi riparare dalla vita frenetica della città.
Vissi da solo per anni, sino a quando, il quindicesimo giorno dell’ottavo mese dell’anno XXXX, venne a bussare alla mia porta uno strano essere dall’aria impaurita e dall’aspetto piuttosto buffo. Era un piccolo ometto verde alto non più di trenta centimetri, con i capelli e la barba dello stesso colore della carnagione, e con addosso un berretto rosso ed una specie di tunica bianca che poteva ricordare un fazzolettino di carta o qualcosa di simile. Mi disse d’essere un folletto di nome Giammaria, scappato dal suo paese natio a causa di una non so quale persecuzione che stava sterminando la sua razza. Mi raccontò, infatti, che tra gli esseri umani v’era un importante sovrano che, avendo scoperto i fantastici poteri del popolo dei boschi, aveva deciso di massacrarli tutti senza alcuna pietà. Lo scopo di tutto era abolire la felicità e l’euforia tra le persone per promuovere una vita grigia, priva di risate e di colori.
Con una faccia un po’ incredula porsi una birra ghiacciata al piccoletto che se la scolò in un paio di sorsi. Quando buttò giù l’ultimo goccio, emanò un potente rutto e decise di mostrarmi ciò di cui era capace: mi balzò sulla spalla e mi scoreggiò dritto in faccia per un paio di volte. Di per lì rimasi schifato e lo colpii violentemente per allontanarlo, ma dopo un paio di secondi mi ritrovai in uno stato mentale che mai avevo sperimentato prima. Rilassatezza, felicità ed una strana sensazione di pace mi attanagliavano la mente e facevano arrossare i miei occhi che sembravano doversi chiudere da un momento all’altro. Ero sballato da impazzire e il mondo mi pareva stranamente divertente ed entusiasmante. Sentii una gran voglia di scoppiare a ridere, ma buttai giù un bel sorso di birra cercando di trattenermi. Tutto mi pareva bello e nuovo, tutto faceva parte di me ed io facevo parte di tutto.
D’improvviso un’idea tanto malvagia quanto geniale attraversò il mio celebro bacato: Giammaria poteva farmi ricco! I suoi inebrianti e maleodoranti peti potevano essere una meravigliosa fonte di pecunia per le mie tasche ormai invase dalle ragnatele. Decisi allora di farlo sbronzare e iniziai a riempirgli il bicchiere con del gin di ottima qualità. Faticai molto, ma inevitabilmente al sesto giro le sue parole iniziarono a perdere di significato e non molto dopo si addormentò.
Devo ammettere che ci rimase un po’ male quando si risvegliò ingabbiato come una passera in una mutanda ferrata, ma lo rassicurai dicendogli che se avesse collaborato lo avrei liberato di lì a poco. Iniziò così il mio business, e la mia gallina dalle uova d’oro rese la mia casa un porto di mare, con gente che entrava ed usciva ad ogni ora del giorno. Per soli dieci dollari vendevo la felicità, per sole dieci monete le persone uscivano con occhi che riuscivano a scorgere cose che prima non vedevano.
Stavo diventando ricco, e man mano che accumulavo pecunia cercavo anche di migliorare le condizioni di vita del mio piccolo prigioniero. Aggiunsi alla sua gabbia un letto, una poltrona e uno di quei televisori portatili, e mi preoccupavo sempre di non fargli mancare dell’ottimo cibo e della deliziosa birra belga. Il bastardo stava diventando grasso e morbido come un lurido maiale tedesco, e viziato e pretenzioso come una stupida femmina ingravidata. Ma in fondo in fondo lo trovavo simpatico e col passar del tempo diventammo pure amici. Iniziammo così a trascorrere le serate insieme, bevendo e parlando di stronzate fino a tarda ora quasi ogni notte. Mi ci affezionai proprio e decisi anche di liberarlo da quella cella che, da quel momento in poi, non sarebbe stata altro che la sua nuova cameretta. Era proprio simpatico ed ingenuo, il piccolo Giamma, simpatico ed ingenuo come un bambino sbronzo o qualcosa del genere.
M’ero innamorato. I suoi occhi sempre arrossati mi accendevano l’animo e mi ricordavano perché vale la pena di vivere, e i suoi meravigliosi peti mi spegnevano la mente e assuefacevano il mio cuore ormai perso. Senza le sue scoregge la mia vita non aveva più senso, senza di lui ero un uomo finito. Quando lo vedevo passeggiare per casa come un pargolo che della vita sa poco o niente, il mio spirito s’infiammava ed il pene mi s’ergeva come non mai. Sentivo il sangue scorrermi sempre più velocemente nelle vene ed i pensieri abbandonarsi a strane e perverse fantasie sessuali. Capitò così che una sera, dopo aver bevuto non ricordo quanti drink, rivelai a Giamma i miei sentimenti e la passione che mi stava logorando il cuore e attivando l’apparato riproduttivo. Quel piccolo figlio di una cagna non comprese però la purezza del mio affetto e mi respinse in malo modo, deridendomi e dandomi del culattone. Ero così infuriato che lo colpii alla nuca tanto forte da fargli perdere i sensi e, accecato dall’ira, privai la sua gabbia di tutti i confort e lo rinchiusi nuovamente.
Nei giorni a seguire abusai ripetutamente di lui e del suo candido fondoschiena verdastro, che dopo un paio di botte iniziò a sanguinare come un cazzo di culo sfondato. Mentre lo privavo della verginità Giamma gridava e piangeva dalla disperazione, ed io godevo sempre più ad ogni suo urlo e lamento. Per la prima volta in vita mia ero felice. Lo rimpinzavo di legumi e quello scoreggiava ed io mi sballavo. Glielo ficcavo su e quello gridava ed io venivo. Tutto era perfetto e le giornate trascorrevano veloci, i soldi non mi mancavano e finalmente avevo trovato quello che credevo essere l’amore.
Una sera, però, rientrai a casa dopo una sbornia in giro con degli amici e trovai il piccoletto che s’era impiccato con un laccio delle mie scarpe da ginnastica. Accanto a lui solo un biglietto in cui v’era scritta, con mano tremula, una singola frase: “Ma vedi d’andartene a fanculo, STRONZO!”. E piansi come non ebbi mai pianto e gridai come non ebbi mai gridato, per la morte di quel tenero omino, che amai come non seppi mai più amare.