sabato 17 ottobre 2020

No title

Ehi tu, svegliati ed apri gli occhi. Alzati e fammi rivedere i tuoi splendidi occhietti azzurri. Dai, non scherzare, mi fai paura. Non puoi andartene così in una giornata di sole. Ehi, ti prego, non tenere il fiato. E respira cazzo! Riapri quegli occhietti e non scherzare. Ma gli occhi non si aprono, lo scherzo si fa serio, e la realtà diventa nuovamente un incubo dal quale non ci si può svegliare. Ma è l'ennesimo di una serie insopportabile, ed una bestemmia sincera e convinta mi si imprime nell'anima, e stavolta la sento incidersi in profondità, nelle ossa, con scalpelli forgiati dall'odio e la disperazione. Le lacrime versate sono una tempesta che infuria, e gli sguardi sfatti di chi ti ha amato mi pugnalano al cuore e lo fanno sanguinare. Regalo affetto, e dispenso baci ed abbracci, ma la forza se ne va e la giacca mi si intinge di acqua e sale, di tristezza e dolore. E mi convinco sempre più che sia Lei ad amarmi e che di me non possa fare a meno. Mi segue da sempre, questo è sicuro, è da quando sono bambino che mi osserva e mi prende per mano. La vecchia Stalker però ora si fa arrogante, molesta, mi accarezza le palle e, sussurrandomi d' amore, mi seduce. E' perversa, cazzo, malata, e Dio non mi aiuta e Lei non mi vuole lasciare andare. “Ogni giorno che passa a Te mi avvicino, amore ti giurai il primo giorno, e nell'ultimo ti donerò la mia luce.” La Signora si libera della falce e si alza la tunica, appoggia il suo capo al mio, e ne sento il fetore, il puzzo di muffa e putrefazione, avverto la tensione nell'aria e quel suo nefasto desiderio che mi terrorizza ed attrae. Sento la Morte abbracciarmi, toccarmi come non ha mai fatto, amarmi come non dovrebbe, e ho paura. Il membro si fa turgido e tosto, e delle mani ossute lo accarezzano, ed apprezzo quelle labbra imputridite che mi baciano lì dove non dovrebbero, ed un brivido caldo mi parte dai testicoli per arrivare al cranio e farmi stare bene. E in un breve istante raggiungo il Paradiso, incontro per un momento quel Dio in cui non credo, un vecchiaccio stronzo dalle pupille dilatate e l'alito sfatto, un vecchio balordo con cui non vorrei avere a che fare. E invece me lo ritrovo lì di fronte, onnisciente come sempre, spocchioso come il peggiore figlio di troia che non sia mai nato, ed un ruggito mi nasce dal profondo, e divento una tigre, una bestia di cui si dovrebbe aver paura. E gli afferro la gola, gli stringo stretto il pomo di quel primo uomo che non avrebbe mai dovuto creare, e, mentre lo mordo alla giugulare, il mio ginocchio lo colpisce lì dove fa più male. Lo vedo tossire, accasciarsi nel suo stesso sangue, e sorrido incurante delle maledizioni che mi getta addosso mentre ritorno tra le letali ed ossute braccia di Colei che mi sta donando la sua passione. Ed una fellatio mi conduce verso il niente, verso il sonno senza fine, so che un caldo e rassicurante inferno mi attende e, con un amaro sorriso stampato sul volto, auguro a tutti voi una buona notte. 'Notte zia, 'notte nonnino, 'notte zione e 'notte papà. Vi auguro a tutti una serena ed eterna notte. Ciao, oh miei cari, e addio..

mercoledì 9 settembre 2020

Le cicale cantano giocose

Le cicale cantano giocose, spensierate, come se l’inverno non fosse prossimo e l’estate non stesse per finire. Una leggera brezza rinfresca l’aria, e smuove le foglie e i rami degli alberi, mentre il terriccio ancora umido e le abbondanti pozzanghere mi ricordano che ieri ha piovuto, e che forse oggi pioverà ancora. Ma la tempesta è passata, e una calda e fioca luce avvolge il giorno e la vita. Il cielo al momento è sgombro, e quel vecchio capanno degli attrezzi se ne sta lì, immobile, fisso in quel luogo senza un senso e senza tempo. Una vecchia signora mi spia da una finestra, e mi scruta fumare dell’erba, protetta da quei vetri spessi e da una tenda ingiallita dagli anni, mentre un trentenne pazzo e dall’animo poco scaltro, di tanto in tanto, se ne esce da uno squallido portone borbottando frasi prive di significato e che mi appaiono un poco inquietanti. “ Mi sono pulito bene il culo?”, chiede l’uomo urlando, “Venite a vedere la mia pala eolica che va a corrente!!”, dice. Oppure: “Attenti al fantasma dell’opera che vive ai bordi della via”, “L’universo rosso sta per collassare!!”, e “porco dio”, e porco quello e porco pure quell’altro. Io continuo a fumare, e le cicale a cantare, ma il cielo torna ad imbrunirsi, ed un tuono improvviso scuote l'aria, e la pioggia ricomincia a cadere, ad inzupparmi, come per gioco, ed il vento dell'est si mescola alla grandine ed inizia seriamente a farmi del male. Le strade si riempiono d'acqua, i tombini impazziscono, il folle si dilegua, e piccoli fiumi trasportano con sé ratti e cicale, e nessuno più canta e grida in questa notte segnata dal gelo. Allora abbandono i calzoncini corti, consapevole che l'estate sia finita e che l'autunno stia prendendo il sopravvento, e mi rifugio dove mi sento più sicuro, nel mio caldo, vecchio e sgualcito cappotto nero, ciò che ho di più caro e che porta con sé il profumo dell'infanzia, il sapore della famiglia. Qui mi crogiolo nei ricordi della spensieratezza, di quando ero un bimbo, di quando la gente non si ammalava e non moriva, di quando l'estate era eterna, e si giocava a pallone, e a scuola ci si divertiva. A quei tempi c'era sempre qualcuno che ti raccoglieva mentre cadevi, c'era sempre chi ti teneva per mano quando ti disperavi per un attimo di solitudine e ti pareva di morire, c'erano i tuoi genitori, i nonni e gli zii, tutti vivi, tutti salvi, tutti pronti a coccolarti in ogni istante, anche quando sbagliavi e non te ne accorgevi. In quegli anni tutto era perfetto, ed in questo cappotto il freddo non mi tocca, mi passa accanto come se non mi appartenesse, il vento mi sfiora senza scalfirmi, e, mentre lo indosso, riesco ancora a sentire in lontananza un flebile canto di cicale e di vita. E l'amore mi riscalda il cuore, l'amore di chi mi sta e di chi mi è stato accanto, l'affetto degli amici più cari, di quelli fraterni e di quelli no, di chi è cresciuto, di chi è rimasto scemo, di chi è partito per il lungo viaggio e di chi è ancora qui per regalarmi quattro carezze ed un bicchiere di vino. E quel bicchiere io lo tracanno come se non ci fosse un domani, come se fosse l'ultimo, poiché l'alcolismo mi calza a pennello e la vita mi sta stretta, perché adoro le carezze e solo con esse trovo quella pace che l'esistere non mi sa dare. E queste rughe sono profonde cicatrici che mi solcano il viso, esibisco con orgoglio il tempo trascorso e il logorio che ne comporta, e, mentre mi osservo allo specchio, vedo mio padre e mio nonno, e mi commuovo, e gli occhi mi si riempiono di lacrime e sangue perché sento che ormai tutto sta per finire. Dei fiocchi di neve iniziano cadere, e pian piano avvolgono questo corpo stanco che le gambe non riescono più a reggere, e la bufera mi travolge, gli occhi parlano solo del bianco e del nero, l'udito tradisce i suoni ed il pensiero cavalca mondi trascorsi che ormai non hanno senso ma che devono essere ricordati. Ed allora parlo della guerra e di come sono scappato, dei nazisti, dei ferrovieri, e della brava gente che mi ha protetto, e di come ce l'ho fatta a ritornare a casa. E c'è chi mi ascolta e chi no, c'è chi mi ama e chi vorrebbe uccidermi, e le mosche svolazzano felici su di un cavallo che non ha più forze e che ormai si lascia andare. Sento il freddo accogliermi, e non ha importanza, una squallida eredità lascerà unicamente discussioni ed amore. E dormirò sogni eterni, perché sono solo un cialtrone morente in un mondo di eroi, sono solo uno dei tanti, sono solo una flebile ma intensa luce che sta per spegnersi ed essere inghiottita dal nulla. Con un gemito di dolore finalmente abbandono la carne, saluto per sempre quel sacchetto di budella, sangue e muscoli che mi ha accompagnato per tanti anni, e mi fermo ad osservarlo, ad ammirare la neve ricoprirlo come a volerlo proteggere, rimango estasiato dalla natura che vi brulica attorno, e pian piano il gelo si scioglie, e scoppio in un pianto di gioia quando scopro che da lì, dove una volta c'era il mio cuore, ora si erge una candida e meravigliosa margherita. Ed un bambino le corre incontro, lo vedo sorridere mentre si china per raccoglierla, e sorrido con lui mentre si allontana, mentre lo vedo correre e sparire dietro a quel vecchio capanno che se ne sta lì, immobile, fisso in quel luogo senza un senso e senza tempo. “Mamma, mamma!! Che bello! Guarda, è tornata la primavera!!”.

sabato 2 settembre 2017

Luce

Quando verrà la luce forse non saprò più come accoglierla, e se sarà il caso la fisserò sino ad accecarmi, e ballerò nudo e pazzo sotto il sole infuocato, parlerò con i vivi ed i morti, e nutrendomi del sangue delle altrui donne prolungherò la mia agonia. E scorgo le gambe delle passanti, le vedo sbronze ed ubriache nelle notti senza luna. Immagino il loro profumo, ne assaporo l'aroma e mi nutro delle mie fantasie. Ma tracanno birra che è meglio, annacquo gli istinti fino ad assopirli, uccido la bestia che mi giace dentro, e incatenandola mi sento meglio, e la lascio dormire finché non tornerà per divorarmi. Sguazzo nella solitudine come un maiale nel fango, guardando gli angeli nel cielo mi illudo di poter volare anch'io, e mi fermo ad ammirarli, mi fermo e rincorro invano le carezze del loro dio. Osservo il silenzio della notte, solo qualche macchina passa per la via, come per sbaglio, mentre un ratto mi passeggia accanto alla ricerca di un pò di cibo e di un riparo dalle bestie che vivono nella luce. E la rabbia mi invade, non sto bene e non riesco più a scaldarmi. Ho freddo e vorrei dormire, ma non riesco. Buonanotte dio, e vaffanculo caro amico, prima o poi ti scrivo. Ciao.

lunedì 14 luglio 2014

SETE

Sono sempre assetato, sempre, e le fauci secche e l’arsura pregnante mi premono costantemente sulle meningi, e, quando la sete si fa insopportabile, i genitali mi si gonfiano, ed iniziano a pulsare sino a farmi gridare e piangere per la disperazione ed il dolore. Il medico mi ha diagnosticato una malattia rara, qualcosa che ha a che fare con la genetica, una sindrome neozelandese innescatasi con la mia prima sbronza, una cosa che da quel giorno mi costringe ad ingerire in continuazione alcol, a tracannare ettolitri di dolce nettare in modo da poter compensare un deficit dopaminergico a livello dell’ipotalamo o qualcosa del genere, un qualche organo che per quel che mi riguarda sta nelle immediate vicinanze del buco del culo, o più precisamente tra lo scroto ed il buco del culo stesso. Una diagnosi pesante, insomma, ma poi un giorno per fortuna è arrivato uno psichiatra che, con mio gran stupore, mi ha rassicurato dicendomi che sono solo un alcolista, e che tutto andrà bene, per il verso giusto, perlomeno sino a quando tra me e la bibita non si frapporrà una bella cirrosi o un’epatite di qualche tipo. Pertanto non devo preoccuparmi, per niente, perché per me la vita trascorrerà tranquilla, vivrò gioie e dolori, come tutti, sino all’istante in cui la morte non mi noterà, e innamorata persa mi condurrà a lei nel peggiore dei modi, rovistando tra le mie budella e lasciandomi salutare il mondo con la bocca impregnata di un sapore agre di bile e di fegato malandato. Ma non mi importa di come andrà a finire, poiché, per come la penso, ogni fine è di per sé misera e meschina, e perciò credo che la mia non sarà peggiore di tante altre. Ed allora continuo a bere come è nella mia natura fare, per ore, per giorni interi, lasciando intendere a tutti di essere solo un alcolizzato, un semplice ubriacone. Certo, oggi ho bevuto, ed anche ieri e ieri l’altro, ma in fin dei conti questo è ciò che mi piace e che so fare meglio. E allora perché cambiare? Forse per il giudizio ottuso di un qualche omino che, di tanto in tanto, alle prime luci dell’alba, mi vede urinare dal molo, mentre mi sbocco addosso ed impreco contro dei vecchi fantasmi che non conosco ma che m’hanno ugualmente abbandonato? O per l’impressione balorda di certa brava gente che sogna un mondo perfetto abitato da fatine dei denti e fatto di marzapane? No, non m’importa. Non mi importa di nulla e di nessuno perché odio le persone e i loro stupidi problemi. Odio i falsi sorrisi e le belle parole. Odio le parole d’odio e le frasi d’amore. Odio tutto ciò che mi circonda, e disprezzo quella parte di me che mi fa odiare e maledire ogni cosa. Certo, odio tutto perché sono solo, solo un ubriacone, è vero, ma purtroppo non sono solo questo. Sono questo, soprattutto questo, ma anche dell’altro e dell’altro ancora. Sono la lacrima insanguinata che sgorga dall’occhio di un buffone triste, sono la crepa nell’animo di un suicida, sono la fottuta falla di una fottuta nave che sta affondando. Ma sono anche il sorriso stampato sul viso di un bambino, l’eroina che impetuosa circola nelle vene di un tossico e che ne rinfranca lo spirito, sono il Cristo, la religione, sono una sfattanza che rende il mondo un luogo più accogliente e sopportabile. Ed è per questo che ora sono qui, solitario, seduto al bancone di un bar, una bettola fetente dove la gente profuma di escrementi e batteri, un luogo lugubre dove Dio non è mai entrato. Sono qui per rendere il mondo un posto migliore. Sono qui e butto giù del vino, a grandi sorsate, e la morte non mi spaventa ed invecchiare non è più poi così doloroso. E scoreggio parolacce perché pian piano è la bibita a comandare e non mi importa più di quello che dico e faccio. E mi alzo, e continuo a tracannare, e ciarlo di cose senza senso che si perdono nel niente, parole fasulle a cui nessuno farà caso. E dopo l’ennesimo grappino, ed un altro e un altro ancora, ecco che finalmente la stanza mi ondeggia sotto i piedi, e non faccio nulla per restare con voi, e mi lascio cadere, e divento solo un pupazzo nelle mani del destino. Non sono altro che un burattino maldestro nelle mani di un dio goffo e cerebroleso, penso, ed emetto una risata fiacca, una risata fiacca e stanca che mi abbandona perplesso al suolo. E penso che tutto vada bene così, e che le cose potrebbero andare meglio ma anche peggio. E alla fine mi ricordo, mi ricordo di questa sete che mi divora da dentro, mi ricordo che vorrei continuare a bere, di tutto, e per tutta la notte e più. Birra. Vino. Sgnappa. Non so, ma meglio buttar giù qualcosa di forte, e voglio e ordinerò qualcosa di tosto e robusto, qualcosa che mi anestetizzi una volta per tutte, la gola, e plachi finalmente questa mia insaziabile, logorante e fottuta sete. E allora mi rialzo su queste gambe molli, e barcollo, e a fatica ritorno lì, dove è il mio posto, dove sarei sempre dovuto stare. Ritorno al bancone del mio bar e chiamo ciò che di più forte offre la casa. E osservo l’oste riempirmi il bicchiere. Lo vedo calmo, freddo, speranzoso nel versare. Scorgo nei suoi occhi la speranza, la pena, il ribrezzo, il desiderio che questo sia il mio ultimo bicchiere, la noia, la voglia di uccidermi. Vedo in lui tutto e niente, e non mi importa. Mi importa solo che continui a versare, e che continui come sempre a far scorrere la bibita a fiumi negli oscuri ed infiniti meandri che conducono al mio grasso e flaccido ventre. E’ solo questo ciò che importa, ora e sempre, cin. Con un buon bicchiere di acido muriatico tutto passa, anche la sete.

domenica 11 gennaio 2009

Nel Campo dei Cipressi (dedicato all'anticlericalismo radicato in Tex..)

Un bambino passeggia perplesso, avvolto dal vento, la fronte corrugata e nella mente un dubbio atroce, una terribile sensazione che gli sta uccidendo la giovinezza, una perdita di fede e una morte che ha messo in discussione il suo credo, e quella fiducia incondizionata nell’esistenza del Dio creatore, amore e benevolenza.
Attorno, ragazzini bastardi e vecchi stolti vagano tra i corpi decomposti di poveri cristi crocifissi ai lati della strada, cercando spazio per la propria croce, proseguendo annusando ebbrezza tra i lamenti ed il fetore nauseante della putrefazione. Il bambino va avanti silenzioso, gli occhi fissi a terra, una preghiera ad ogni croce ed un singhiozzo disperato per ogni chiodo conficcato nella carne.
Le tenebre fanno propria la notte, le nubi si raddensano e la pioggia inizia a cadere mescolandosi al sangue, i lampi infrangono il cielo illuminando giocattoli abbandonati, antichi palloni e bambole di gente andata, ricordi perduti di peccatori blasfemi dagli animi corrotti, uomini rimasti tali poiché incapaci d’improvvisare filosofie gentili ed ammalianti. D’un tratto, una voce fioca ed improvvisa,
simile ad un respiro roco, chiama per nome il fanciullo che si volta sorpreso, impaurito, verso quell’alta croce che ospita il volto familiare di un uomo il cui aspetto sfigurato appare meno morto degli altri, uno spirito stanco aggrappato ad un corpo divorato dal dolore e dalle larve, una bocca insanguinata che ha ancora voglia di blaterare. Così l’uomo racconta al bambino la propria storia, la simpatia per la Chiesa, quell’odio immondo per i vizi e i desideri della carne, le infinite maledizioni rivolte a taverne e bordelli, scienza e tecnologie. Si sfoga, inveisce contro Dio, quel Cristo che lo ha abbandonato facendogli smarrire il cammino, indirizzandolo tra le braccia monche di preti e suore, figli di satana assassini d’ideali e progresso, spacciatori di candida gialla eroina che appanna la vista
svincolandoci dal peccato. Parla, parla e parla, l’uomo dice di cose sempre sapute, mai dette, una storia di morte e vita, la vicenda di un uomo fottuto che gli brucia il culo e fa male. Ma mentre parla i suoi occhi si fanno carichi di lacrime e tristezza, sono travolti da un pianto disperato per la disperazione di essere stato truffato ed ingannato da un dio che in realtà non è Dio, una religione
fasulla e satolla di promesse, fatte da nessun altro che da gente corrotta ed assetata di denaro, inconsapevole dell’amore e schiava dello spicciolo. Una bestemmia sincera gli si materializza in testa, prega il bambino affinché non faccia quella stessa orrenda fine, affinché possa finalmente assaporare la vita, libero da inutili moralità e stupide costrizioni.
Il bambino ha ascoltato e compreso, la commozione lo pervade intorpidendogli i pensieri e le emozioni, inzuppandogli le mani nell’Lsd e portandole alla bocca dell’uomo che gliele succhia sino a farle sanguinare. Poi divora il proprio sangue mescolato all’acido, si sbarazza del battesimo e alla fine si risveglia dal sogno che per tutta la sua breve vita l’ha incatenato in paradisi fittizi, fatti
d’angeli biondi e nuvole dorate. Ora è di nuovo pronto, ad assoggettare il mondo, la rabbia lo percuote, la via si riempie di puffi balordi ed immorali, esseri immondi armati di parole e mannaie, un esercito ribelle che sospinto dall’estasi abbatte le croci ed uccide i superstiti ovattandone la sofferenza.
La ribellione sopprime la repressione con aghi forati da spine di rosa e cose che non ricordo, l’eroina viene risucchiata dai corpi liberando così i pensieri da fiacchezza e rassegnazione, la follia s’impossessa degli animi claudicanti che ora alzano lo sguardo al cielo arricchendo la propria esperienza ed allontanandosi dal fetore e dal desiderio della morte. Le croci cadono una dopo l’altra, una melanconica e triste vittoria, un insensato senso di stordimento e perdizione che
sostituisce le certezze imposte con vaghe impressioni e percezioni ambivalenti di un mondo più magico e concreto.
Le tenebre si dissolvono e la fiaba sta per finire, una luce arde nella notte, conferendo allo sguardo del bambino consapevolezza, e una maturità che finalmente gli permette di riconoscere se stesso da adulto nel viso del crocifisso steso a terra di fronte a lui.
Alla fine si guarda morire nel campo dei cipressi, accompagna il proprio trapasso, il funerale, con un silenzioso lamento, ed assiste alla resurrezione di un uomo con una tenue soddisfazione per l’essere alla fine riuscito a salvarsi dalle lacrime e la disperazione. Un ultimo pianto gli sciupa il viso. E’ un pianto di gioia, il vagito dell’infante che per la prima volta incontra la vita, il grido liberatorio di uno spirito che rincorre la luce, una strana nostalgia, un uomo che ha abbandonato
tutto, antichi palloni e bambole, ricordi perduti in una nottata d’inverno, nel vecchio e freddo campo dei cipressi.


La casa dell'ometto verde

Erano passati ormai sei anni da quando mi trasferii in quel buco parcheggiato dietro al campo degli opossum. Ce n’erano a centinaia di quei pezzi di merda, maledetti criminali che nella vita non facevano altro che saccheggiare le case altrui e fumare skunk ed annusare colla. Faceva schifo a tutti, il mio vecchio monolocale, ed anch’io lo odiavo, ma era accogliente e lo avevo arredato come più mi garbava. Oltre al bagno, v’era un’unica stanza che fungeva da cucina, salotto e camera da letto. Era bellissima, con tutti quei poster osé appiccicati alle pareti e quella moquette zebrata che dava un tocco di omosessualità alla mia vita. Ma ciò di cui andavo veramente fiero era l’enorme divano ad L che occupava l’angolo sotto la finestra. La pelle nera, che ricopriva le soffici piume d’oca di cui era fatto, emanava un profumo inebriante, e la sua comodità era tale che mi era difficile alzarmi ogniqualvolta mi ci adagiavo per addormentarmi. Nell’angolo opposto, un piccolo angolo cottura era affiancato da un armadio a due ante sopra il quale si trovava la mia collezione di sveglie antiche, cinquanta orologi tutti funzionanti che ticchettavano in continuazione e suonavano ad ogni ora. Insomma, era un posto piccolo ma accogliente, il rifugio per me più adatto in cui potermi riparare dalla vita frenetica della città.
Vissi da solo per anni, sino a quando, il quindicesimo giorno dell’ottavo mese dell’anno XXXX, venne a bussare alla mia porta uno strano essere dall’aria impaurita e dall’aspetto piuttosto buffo. Era un piccolo ometto verde alto non più di trenta centimetri, con i capelli e la barba dello stesso colore della carnagione, e con addosso un berretto rosso ed una specie di tunica bianca che poteva ricordare un fazzolettino di carta o qualcosa di simile. Mi disse d’essere un folletto di nome Giammaria, scappato dal suo paese natio a causa di una non so quale persecuzione che stava sterminando la sua razza. Mi raccontò, infatti, che tra gli esseri umani v’era un importante sovrano che, avendo scoperto i fantastici poteri del popolo dei boschi, aveva deciso di massacrarli tutti senza alcuna pietà. Lo scopo di tutto era abolire la felicità e l’euforia tra le persone per promuovere una vita grigia, priva di risate e di colori.
Con una faccia un po’ incredula porsi una birra ghiacciata al piccoletto che se la scolò in un paio di sorsi. Quando buttò giù l’ultimo goccio, emanò un potente rutto e decise di mostrarmi ciò di cui era capace: mi balzò sulla spalla e mi scoreggiò dritto in faccia per un paio di volte. Di per lì rimasi schifato e lo colpii violentemente per allontanarlo, ma dopo un paio di secondi mi ritrovai in uno stato mentale che mai avevo sperimentato prima. Rilassatezza, felicità ed una strana sensazione di pace mi attanagliavano la mente e facevano arrossare i miei occhi che sembravano doversi chiudere da un momento all’altro. Ero sballato da impazzire e il mondo mi pareva stranamente divertente ed entusiasmante. Sentii una gran voglia di scoppiare a ridere, ma buttai giù un bel sorso di birra cercando di trattenermi. Tutto mi pareva bello e nuovo, tutto faceva parte di me ed io facevo parte di tutto.
D’improvviso un’idea tanto malvagia quanto geniale attraversò il mio celebro bacato: Giammaria poteva farmi ricco! I suoi inebrianti e maleodoranti peti potevano essere una meravigliosa fonte di pecunia per le mie tasche ormai invase dalle ragnatele. Decisi allora di farlo sbronzare e iniziai a riempirgli il bicchiere con del gin di ottima qualità. Faticai molto, ma inevitabilmente al sesto giro le sue parole iniziarono a perdere di significato e non molto dopo si addormentò.
Devo ammettere che ci rimase un po’ male quando si risvegliò ingabbiato come una passera in una mutanda ferrata, ma lo rassicurai dicendogli che se avesse collaborato lo avrei liberato di lì a poco. Iniziò così il mio business, e la mia gallina dalle uova d’oro rese la mia casa un porto di mare, con gente che entrava ed usciva ad ogni ora del giorno. Per soli dieci dollari vendevo la felicità, per sole dieci monete le persone uscivano con occhi che riuscivano a scorgere cose che prima non vedevano.
Stavo diventando ricco, e man mano che accumulavo pecunia cercavo anche di migliorare le condizioni di vita del mio piccolo prigioniero. Aggiunsi alla sua gabbia un letto, una poltrona e uno di quei televisori portatili, e mi preoccupavo sempre di non fargli mancare dell’ottimo cibo e della deliziosa birra belga. Il bastardo stava diventando grasso e morbido come un lurido maiale tedesco, e viziato e pretenzioso come una stupida femmina ingravidata. Ma in fondo in fondo lo trovavo simpatico e col passar del tempo diventammo pure amici. Iniziammo così a trascorrere le serate insieme, bevendo e parlando di stronzate fino a tarda ora quasi ogni notte. Mi ci affezionai proprio e decisi anche di liberarlo da quella cella che, da quel momento in poi, non sarebbe stata altro che la sua nuova cameretta. Era proprio simpatico ed ingenuo, il piccolo Giamma, simpatico ed ingenuo come un bambino sbronzo o qualcosa del genere.
M’ero innamorato. I suoi occhi sempre arrossati mi accendevano l’animo e mi ricordavano perché vale la pena di vivere, e i suoi meravigliosi peti mi spegnevano la mente e assuefacevano il mio cuore ormai perso. Senza le sue scoregge la mia vita non aveva più senso, senza di lui ero un uomo finito. Quando lo vedevo passeggiare per casa come un pargolo che della vita sa poco o niente, il mio spirito s’infiammava ed il pene mi s’ergeva come non mai. Sentivo il sangue scorrermi sempre più velocemente nelle vene ed i pensieri abbandonarsi a strane e perverse fantasie sessuali. Capitò così che una sera, dopo aver bevuto non ricordo quanti drink, rivelai a Giamma i miei sentimenti e la passione che mi stava logorando il cuore e attivando l’apparato riproduttivo. Quel piccolo figlio di una cagna non comprese però la purezza del mio affetto e mi respinse in malo modo, deridendomi e dandomi del culattone. Ero così infuriato che lo colpii alla nuca tanto forte da fargli perdere i sensi e, accecato dall’ira, privai la sua gabbia di tutti i confort e lo rinchiusi nuovamente.
Nei giorni a seguire abusai ripetutamente di lui e del suo candido fondoschiena verdastro, che dopo un paio di botte iniziò a sanguinare come un cazzo di culo sfondato. Mentre lo privavo della verginità Giamma gridava e piangeva dalla disperazione, ed io godevo sempre più ad ogni suo urlo e lamento. Per la prima volta in vita mia ero felice. Lo rimpinzavo di legumi e quello scoreggiava ed io mi sballavo. Glielo ficcavo su e quello gridava ed io venivo. Tutto era perfetto e le giornate trascorrevano veloci, i soldi non mi mancavano e finalmente avevo trovato quello che credevo essere l’amore.
Una sera, però, rientrai a casa dopo una sbornia in giro con degli amici e trovai il piccoletto che s’era impiccato con un laccio delle mie scarpe da ginnastica. Accanto a lui solo un biglietto in cui v’era scritta, con mano tremula, una singola frase: “Ma vedi d’andartene a fanculo, STRONZO!”. E piansi come non ebbi mai pianto e gridai come non ebbi mai gridato, per la morte di quel tenero omino, che amai come non seppi mai più amare.

domenica 28 settembre 2008

Il tossico che tossica e rosica

La vita ammuffita lo porta a far cose strane, andare in giro senza una meta, vagare per ore alla ricerca di un divertimento infinito che possa bruciare le maledette lancette di quel fastidioso orologio che porta al polso. L’odore della montagna a volte lo rassicura, riaccende nella mente il ricordo di fresche risate, di quei bei tempi andati in cui ci si meravigliava per nulla e bastava un niente per esser sereni. Ma ora tutto è cambiato, babbo natale è morto, dio è una farsa, e la vita ha perso quel sapore che la rendeva così succosa ed attraente. La mediocrità è una soluzione, un diabolico rimedio che gli stringe i genitali così forte da fargli male. L’uomo cammina nella notte, passeggia per vicoli bui sperando di incontrare affinità ed empatia. La mente è strafatta, l’occhio è ancora vivo, i suoi pensieri confusi in un sogno solitario. Cazzo!!, ha bisogno di fottuto amore, necessita di un cristiano sentimento che lo deragli da quella via tenebrosa, dall’oscurità del demonio che si impossessa del suo corpo, delle mani e del cervello ogni volta che s’inietta quella schifezza nelle vene. La legalità lo rassicura, non teme la sbirrianza, desidera la morte e sa che non la troverà. L’etanolo, ne bastano pochi cc che tutto appare migliore, tutto ritorna normale, così, proprio come dovrebbe essere. Egli si ferma avvolto dalla nebbia, mentre spiriti infuriati giocano con lui e lo confondono. Si siede a terra, stappa con violenza il liquore che tiene nella tasca del giubbotto, estrae la siringa che in un attimo è ricolma, e comincia a ravanarsi il braccio alla ricerca d’una vena. Il laccio emostatico stringe ma non fa male, l’ago lo impressiona ma la mediocrità è peggio. Finalmente riesce a farsi, ed il mondo notturno di cui è il padrone si riaccende di colori e serenità. Gli spiriti non gli sono più ostili, adesso parlano e lo rassicurano, lo guidano nella notte e lo proteggono dalle paure e dalla severità della gente. L’uomo, il giovane, lo squilibrato, l’asociale, il tossico, il delinquente, il pazzo, ora può ritornare nelle vie illuminate da lampioni sfocati, assaporare la socialità così come gli è imposta, continuare a farfugliare frasi insensate in bar insulsi di inutili città. La serata criminale ha inizio, una frenetica ricerca di gnomi, fate e folletti da molestare, un desiderio immondo di schifezze e vite da stroncare. La baracca è dirottata su rotte tropicali, luci stravaganti che vanno dal verde al rosa al blu. I cocktail sgorgano a fiumi e le fiche viziose ne tracannano a litri, mostrano all’uomo una mercanzia difficile da ignorare, con tette, culi e gambe che ecciterebbero il peggiore dei culattoni. E’ fatto!, Ma fatto, fatto, fatto, è fatto!, la lussuria gli intrappola la psiche ammazzando le difese di quell’ego instabile sorretto da stampelle in carton gesso di color rosaceo. Annusa il profumo del sesso, desidera un’altra endovena, ma la libido vince e si lancia su una tipa grassona dal seno prosperoso che gli ricorda sua madre, l’allattamento e robe del genere, del tipo bla, bla e bla. Gli spiriti cantano armoniosi, intonano melodie che lo accarezzano ed incitano ad infilare membri in orifizi oscuri dai contorni illuminanti. Ma la sfiga lo guida nei gesti, nelle frasi e parole, un’eterna richiesta di baci che appare dolcezza ma che dolcezza non è. L’occhio s’è spento, morto, lo sguardo fisso nel vuoto ed una faccia che sta mutando in un muso di pesce triglioso che appare lesso ed in effetti lo è. Soldatini di piombo gli marciano nel cervello, pestano la materia grigia come fosse merda, lo rendono impacciato e goffo come un ragazzino alle prese con la sua prima sega ed una sborrata incerta. La giovane sorride, un sorriso per niente malizioso, malinconico, triste, piuttosto, una smorfia femminile che lo fa precipitare in un turbinio di insicurezza, imbarazzo e rossore. Gli spiriti si dimenano, inveiscono, i loro volti mostruosi ora spaventano ed agitano l’uomo. Un dolore gagliardo sale dalle viscere, il sangue ribolle e si allontana dal capo per depositarsi nei piedi, una confusione generale che si conclude con una bestemmia mal detta, un laido porcone ed una fuga fuggiasca nell’oscurità della notte. La corsa è frenetica, il giubbotto lo riscalda, il vento lo schiaffeggia donandogli una rara sensazione di benessere, un ripiglio provvisorio che fa tacere i sensi, cancella l’imbarazzo e quel desiderio di farsi che gli pervade l’animo. Ma un automatismo innato lo ha già condotto nei vicoli della city, tra miagolii di gatti dai testicoli tronfi, barboni dormienti e ratti alla continua ricerca di qualcosa da rosicchiare. Finalmente può fermarsi, l’affanno pareva ucciderlo, un’agitazione bronchiale che lo fa tossire come un cane moribondo con lo stomaco traboccante di pelo. S’accende una sigaretta che all’inizio fa male. Ora è calmo, sicuro, glaciale come un killer che s’accinge a sgozzare la sua vittima. Estrae la spada, la bozza dell’etanolo, un sorriso inconscio gli si stampa in faccia e dice tutto. Un amplesso vigoroso e profondo lo avvinghia stretto e gli ovatta il cranio, meglio che scopare, pensa, intanto in bocca un sapore rivoltante d’uva fermentata ed andata a male. Fanculo la gente, fanculo la vita, fanculo la fregna, si ripete mentre viaggia su nuvole d’argento sopra un mare color pesca. Osserva i pesci nuotare, parla coi gabbiani che ridono sguaiatamente ad ogni sua battuta e barzelletta, dialoga sereno con quel dio falso che da sempre lo ha schernito. Ora tutto è tornato migliore, normale, così, come dovrebbe essere. Adesso anche dio è un burlone, un asociale, un delinquente, un tossico, un ubriacone, uno sballato, un pazzo, un giovane, un uomo, ma forse lo è sempre stato. Quel dio senza nome che balla e ride, quel dio senza arte né parte che gioca a football con ragazzini mosci dai denti marci e sbronzi e ubriachi, quel dio instabile e psicolabile che tocca bambini ritardati, ora è savio di vino e birra, satollo di sorrisi ammiccanti di donne nude e compiacenti su spiagge deserte d’isole tropicali. Egli è divenuto dio, un suo figlio balordo creatore di cose fittizie per gentaglia qualunque dai pensieri insipidi, il padrone del cielo e dei colori sgargianti, il dominatore di quei sogni che lo rendono bambino, scopatore e fruitore di malizie deliziose in stagni traboccanti d’oppio e fragole. L’altro ieri era un bel giorno, ieri un po’ meno, oggi fa proprio schifo. L’uomo è disteso al suolo, una schiuma biancastra alla bocca e degli occhi che girano su stessi, roteano incontrollati quasi a volersi incrociare. I pensieri gridano al risveglio, indolenziti, mentre una luce ammaliante appare all’orizzonte e scoreggia forsennata alla ricerca d’attenzione. Il gelido calore della notte svanisce in un’alba che ogni volta appare unica e lassativa, le stelle si dissolvono ed una sagoma stanca e sporca si rialza barcollante. Il lupo solitario ritorna al suo ovile, veloce, entra in casa e s’accascia nella tiepida bara posta al centro della camera. “Sono una poesia d’amore che parla di morte e ciancia di cose sempre sapute e mai dette”, pensa confuso masturbandosi compulsivamente prima di ammosciarsi flaccido tra grida, sorrisi e facce scialbe di mostri sconosciuti. Una scimmia saltella per la stanza, è sbronza, perversa, gli sussurra all’orecchio favole sconce che parlano di gnomi, gente ubriaca e donne che girano nude per centri commerciali con cazzi di gomma infilati nel culo. Egli cerca di sbarazzarsene, agita oggetti che appaiono contundenti, ferisce, e se ne resta sdraiato in attesa di un giudizio di vino. L’ultima, l’ultima pera che ti fa dormir tranquillo, l’ennesima sfattanza che con arroganza si fa strada tra le fessure insidiose della volontà umana. Ed ecco che Dioniso appare in tutto il suo splendore, carico d’alcool ed angoscia, lo prende in braccio e lo conduce in un violaceo paradiso psichedelico fatto d’uva etilica, dove satiri gioiosi suonano mandolini scordati e giocano felici con l’amore di ninfe vergini e sboccate. L’uomo, meravigliato da tale meraviglia, si guarda attorno ed osserva estasiato la bellezza di quelle creature celestiali, assapora con ingordigia quegli acini che offuscano le idee e raddrizzano i pensieri boccone dopo boccone. Vorrebbe che tutto fosse reale, far parte anch’egli di quel mondo così perfetto e giocare con l’amore di qualcuno. Ma riconosce l’onirica finzione di ciò che lo circonda, soffre dell’irraggiungibile felicità eterna che mai riuscirà a sfiorare, e riapre finalmente gli occhi perdendosi nell’infinita monotonia della stanza. La scimmia ferita è lì, lo fissa immobile, con gli occhi sgranati e le pupille dilatate, impugna un fucile carico d’odio che non aspetta altro d’essere usato. Uno scoppio, un rumoroso frastuono e la fine di una vita che s’accinge a spegnersi. Rimangono pochi istanti in cui l’uomo scopre d’aver vinto la mediocrità, la vecchia arma fumante stretta tra le mani ed un buco nel petto dal quale non esce una goccia di sangue. Il cuore ha cessato di battere, respirare è sempre più difficile, impossibile, un uomo ha smesso d’esistere ed un’anima si è rifugiata nel nulla. Sulla sua tomba non vi sarà scritta, non un fiore, solo la consapevolezza di un uomo, uno squilibrato, un asociale, un tossico, un delinquente ed un pazzo, che è vissuto e finalmente è ritornato a vivere in vie illuminate da lampioni sfocati, a farfugliare frasi insensate accudito tra le braccia vellutate di angeli biondi dai capelli di seta, angeli che intonano canti popolari sorseggiando del vino e cianciando di cose sempre sapute e mai dette, FINE.